Visita guidata a Camerino

VISITA SOCI “BERNARDINO MISINTA” A CAMERINO NEL MARZO 2019

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 SCHEDE TECNICHE

La città di Camerino è stata colpita da una prima forte scossa il 24 agosto 2016, alle ore 3 e mezza di mattina, con una magnitudo di 6.0, poi due altre scosse il 26 ottobre 2016, la prima alle 19:11 (magnitudo 5.4), e la seconda alle 21:18 (magnitudo 5.9).

La scossa delle 19 aveva messo tutti in allarme, inducendo a non rientrare nelle case, cosicché la scosse delle 21, che è quella che ha causato i crolli dei palazzi, non ha però trovato nessuno in casa, facendo sì che non vi fossero vittime; pochi giorni dopo, già in piena emergenza con la città evacuata e gli abitanti sfollati, il 30 ottobre 2016 v’è stata la scossa più forte, magnitudo 6.5.

Queste scosse hanno messo in ginocchio la città: alcuni edifici hanno un angolo crollato, in altri ci sono enormi buchi, crepe solcano i muri, nella caserma dei Carabinieri sembra sia scoppiata una grossa bomba, e devastato i palazzi del centro storico, quelli più antichi: il Palazzo arcivescovile, la Cattedrale, e il Palazzo Ducale in cui si trovavano il Rettorato e la Facoltà di Giurisprudenza con la sua biblioteca giuridica.

Camerino, infatti, è sede di una Università fondata dai Papi nel 1336, ed ha una lunga tradizione religiosa: qui vicino vi nacque l’Ordine dei Cappuccini, ha dato i natali ad una Santa venerata in tutto il mondo, Battista Camilla da Varano, e ha dato un Papa alla Chiesa: Clemente X, Papa Altieri, che fu Arcivescovo di Camerino.

L’Università è fra le più antiche del mondo e fra le migliori d’Italia. Statalizzata nel 1958, nelle classifiche ufficiali del CENSIS è da ben quindici anni al primo posto fra le Università piccole (quelle fino a 10.000 studenti). A differenza delle Università di massa, qui i circa 300 professori prestano grande attenzione nel seguire personalmente i circa 9.000 studenti, duemila in più degli abitanti di Camerino. Da nessun’altra parte in Italia c’è un rapporto così simbiotico fra città e Università.

Rettorato e Giurisprudenza, cioè la mente e il cuore pulsante dell’Università, sono sopravvissuti al terremoto grazie all’eroica opera dell’allora Rettore Prof. Corradini e del suo braccio destro, ed attuale Rettore Prof. Pettinari, e dell’allora Preside di Giurisprudenza, Prof. Flamini, e del nuovo ed attuale Preside, Prof. Favale, che praticamente restando operativi ininterrottamente h24, contro vento e maree, sono riusciti a far sì che dopo solo una settimana dal terremoto gli uffici dell’Università fossero di nuovo operativi, e dopo un mese potessero riprendere le lezioni, anche in streaming.

LA BIBLIOTECA GIURIDICA

Il terremoto verificatosi nell’ottobre 2016 si è abbattuto duramente su Camerino ed ha arrecato gravissimi danni anche all’antico Palazzo Ducale dei Da Varano, non soltanto colpendo così al cuore la Scuola di Giurisprudenza e la Biblioteca giuridica, che lo abitavano mantenendolo vivo, ma anche esponendo al rischio di distruzione i preziosissimi libri cinquecenteschi e gli arredi lignei del ‘700 che vi erano religiosamente custoditi:

  • la Biblioteca giuridica possiede circa 000 libri, un’interessante collezione di circa 500 opere a stampa databili tra la fine del 1400 e il 1800.
  • Si tratta d’un fondo antico costituito da materiale molto raro e di particolare valore, di argomento giuridico, che comprende tra l’altro un’edizione del Corpus Iuris Civilis del XV secolo e varie opere monografiche di grandi giureconsulti.
  • Non mancano pregiatissimi documenti di storia camerte, come l’edizione in pergamena dei Decreta Servanda apud Beatae Virginis Templum ad Carceres ed il gruppo di 33 memoriali manoscritti della Camerinensis Rota del XVII secolo.

La Biblioteca giuridica era ospitata nei sotterranei di Palazzo ducale, ed ora non solo è inaccessibile, trovandosi nella zona rossa, ma è anche direttamente inagibile, avendo subito gravi danni.

Una città fantasma

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Cosa fare se un terremoto distrugge un luogo? In nessun caso puntellare le rovine e dimenticarsi del tutto come in Italia a Camerino
Thomas Steinfeld
Suddeutschland Zeitung n. 238, Martedì 16 ottobre 2018
Esiste l’abbozzo di un dramma di Heiner Mueller dal titolo “Philoktet 1979”. Nel testo l’archeologo Heinrich Schliemann entra nel mitico mondo dell’antichità per innescare una bomba al neutrone in modo da trasformare se stesso e tutto ciò che gli sta intorno in un paradiso per gli archeologi: non sopravvivono gli uomini, ma gli edifici, gli interni, i monumenti, in breve: viene conservato tutto solo ciò che è inanimato.
Un caso surreale, eppure un tale mondo esiste. Ma non nasce dalla mente di un fanatico dello scavo, ma da un terremoto. Così, considerato come un paesaggio paradisiaco per un archeologo, esso supera persino l’immaginazione di Heiner Mueller: tale mondo consiste non solo di case abbandonate, ma anche di rovine, che, messe in sicurezza grazie alle più recenti tecnologie, potranno probabilmente sopravvivere allo stato di macerie per centinaia di anni.
La città dove le fantasie di Heiner Mueller si sono trasformate in realtà si chiama Camerino e si trova su una cresta collinare nelle Marche, tra i monti Sibillini e non lontano dai confini con l’Umbria. Come molte altre città della regione ha una importante storia. L’insediamento risale all’epoca preromana, in larga misura presenta caratteri tardo medievali e raggiunse il suo massimo sviluppo all’epoca del primo Rinascimento.
L’ordine cappuccino è nato qui all’alba del 16. secolo e i monaci sono stati più frugali e autentici dei Francescani dai quali si sono distaccati. Le mura della città e la sua rocca (Rocca di Borgia), il palazzo dei Duchi e dei Vescovi, la piazza Cavour con la cattedrale e il monumento a Papa Sisto V, si aprirebbero come l’immagine ideale di una piccola città dell’Italia centrale davanti allo sfondo di un paesaggio ubertoso ed eroico allo stesso tempo qualora si potesse visitare tale luogo. Ma non è possibile. Soldati armati di mitragliatrice presidiano entrambi gli ingressi, ad essi si può arrivare solo con l’autorizzazione del sindaco, accompagnati da un funzionario della protezione civile e con un elmetto giallo in testa.
Una città, dalla quale tutta la vita è stata allontanata, appare più luttuosa di un cimitero. Poiché anche il più sinistro cimitero è consacrato alla pace eterna. Nel caso di una città questo non vale. Circa tremila abitanti abitavano nel “centro storico”, quando il 26 ottobre 2016 la terra ha tremato così tanto che le facciata si sono sgretolate, le torri sono collassate e le scale precipitate. Qualche casa mostra ancora il bucato steso, grigio e lacero. In qualche cucina si scorgono ancora le stoviglie da lavare.
Da quante case sia costituito il centro storico è difficile a dirsi. Un migliaio o di più? Quaranta erano ancora abitabili potendole raggiungere senza rischi: così dichiara un vigile del fuoco. Ora risuona vuoto ogni passo lungo le strade. Queste sono state liberate dalle macerie, mentre la maggior parte degli edifici sono assicurati grazie a impalcature, cavi d’acciaio e puntelli di ferro. Le finestre e le porte sono sostenute da travi, talvolta con l’aiuto di un telaio e due diagonali, in qualche casa improvvisate tettoie proteggono da muri instabili. In una chiesa è appeso un Tiepolo irraggiungibile. E’ curioso: anche gli uccelli sembrano essere fuggiti dalla città, per non parlare di cani e gatti.
L’università è più antica di quelle di Pisa, Praga o Heidelberg. Anch’essa non è quasi accessibile.
Camerino ospita un’università che, secondo una statistica ufficiale è la migliore tra le piccole università. E’ stata fondata nel 1336, ancora prima delle scuole superiori di Pisa, Praga o Heidelberg. Effettivamente Camerino, come la vicina Urbino era una città universitaria nel vero
senso. Non solo perché il rettorato, l’amministrazione, la facoltà di diritto e la biblioteca storica erano ospitate in alcuni dei palazzi più antichi, prima di tutto in Palazzo Ducale, ma anche perché molti dei 9.000 studenti abitavano nella città vecchia mentre i proprietari si erano trasferiti nella moderna periferia.
Il Palazzo Ducale può essere visitato solo se accompagnati. Ma quella che una volta era la scrivania del rettore, un’aula in una maestosa sala, lo studio di un professore sono coperti da una spessa coltre di polvere. La polvere avvolge anche le pitture ai muri, la maggior parte barocche e consacrate a motivi religiosi. Ovunque giacciono o sono appesi oggetti personali, chiavi, sciarpe, notizie scritte a mano. Il professore di diritto Stefano Testa Bappenheim mostra il fascino abbandonato della sua facoltà e porta via dalla sua calcinata biblioteca di consultazione solo il dizionario tecnico. Un piano di scale più sotto il passaggio è bloccato dai calcinacci. Al piano inferiore si trova invece una biblioteca in cui sono conservati volumi di valore storico. Cosa succederà di essi attualmente non sa né Bappenheim né alcun altro.
Quando Amatrice, una cittadina di 2.500 abitanti duecento chilometri circa a sud di Camerino venne distrutta da un terremoto nell’agosto del 2016 morirono trecento persone. Della città stessa sono rimasti solo cumuli di macerie. La distruzione di Amatrice è nota a tutti non solo per i molti morti, ma anche per le immagini che sono circolate. Poco dopo anche Camerino venne distrutta, comparativamente più grande e più importante dal punto di vista della storia della cultura: ma la notizia non raggiunse il mondo, così come avvenne per le cittadine di Visso, Ussita o Castelsantangelo sul Nera: cittadine più piccole e analogamente danneggiate nei monti Sibillini. In Italia si seppe del disastro solo quello che apparve dalle immagini: gli edifici di Camerino sono pur sostenuti da impalcature. Tuttavia la maggior parte di essi non sono altro che case fantasma o quinte teatrali.
Così ci si chiede per quale ragione simile dispendio di mezzi al semplice scopo di garantire la sicurezza degli edifici. Il lavoro appare giustificato solo se la città venisse ricostruita e gli edifici restaurati. Ma questo non sarà: le enormi infrastrutture di sostegno non anticipano altro che la loro futura, permanente esistenza.
All’inizio del 2009 un altro terremoto distrusse buona parte della città vecchia dell’Aquila, il capoluogo degli Abruzzi. All’epoca Silvio Berlusconi, che era Presidente del Consiglio dei Ministri italiano, promise che la città sarebbe stata ricostruita esattamente così come era. Ormai la promessa appare infondata. Una grossa parte del costruito all’esterno della città vecchia è stato ricostruito, nuovi quartieri sono stati riedificati per i senza tetto. Ma nel centro storico sono stati ricostruiti al massimo un quarto degli edifici e a tal fine già spesi 21 miliardi di euro.
Le cose appaiono immobili in una specie di catastrofe stabilizzata
Si dice che ad Amatrice si stia deliberando su un piano di ricostruzione. Al contrario a Camerino le cose sembrano paralizzate in una sorta di catastrofe stabilizzata. In trenta o quarant’anni la città sarà ricostruita – mi annuncia un allegro giornalaio, che gestisce il suo chiosco fuori ed unterhalb (sottostante?) del centro storico. Sia’ sempre stato così da quando la città, dopo essere stata distrutta nel corso della guerra contro Manfredi di Sicilia, venne riedificata da Gentile da Varano nel 1262. Però nel medioevo Stato e Società non erano ancora organizzati in modo centralizzato come le comunità moderne – gran parte della popolazione ha ormai lasciato definitivamente la città per la costa adriatica. E’ probabile che da tempo circoli presso la pubblica amministrazione l’idea che sia meglio cedere (?) i centri storici abbandonati All’interno del centro storico di Camerino si trova un piccolo insediamento fatto da tende fisse di una tipologia che ricorda le feste medievali. I commercianti della città vecchia vi hanno trovato rifugio, il verduriere e l’ufficio turistico, la lavanderia e il panettiere. Alle loro spalle si trova una palestra. In questo modesto scatolone risalente agli anni sessanta o settanta, che si chiama Palazzo Rotary in ricordo del finanziatore, viene custodito il maggior tesoro di Camerino, in scaffali aperti, in parte avvolti da fogli di plastica, impolverati ed esposti alla luce del giorno: la Biblioteca Valentiniana. Il fondo principale, raccolto all’inizio del 19. secolo per offrire all’Università un patrimonio su cui svilupparsi e per proiettare
all’esterno il prestigio di Camerino, include numerosi manoscritti medievali, principalmente sulla storia religiosa delle Marche, libri di geografia illustrati e atlanti datanti dai primi tempi della cartografia moderna, manoscritti di drammaturgia del 16. secolo, principalmente però opere appartenenti alla storia delle scienze, che venivano e vengono studiate a Camerino: giurisprudenza, ma anche botanica, farmacia e medicina veterinaria. Originariamente la biblioteca era conservata nel Palazzo Ducale, in una sala dalla volta a botte, in scaffali costruiti appositamente. Poi c’è stato il terremoto del 1997 e il trasloco del Rettorato e il trasferimento nel “Palazzo Rotary”. Dopo il terremoto del 2016 anche la palestra è stata talmente danneggiata che nessuno più può visitare questa biblioteca.
Oggi lo sguardo scorre dal portone sbarrato lungo le colline intorno lungo le cui pendici si trovano le residenze degli studenti e dove i giuristi dovrebbero trovare un nuovo edificio in una costruzione di vetro che era originariamente destinata a fungere da mensa, mentre invece interi istituti hanno trovato collocazione in containers.
Il professore di diritto Bappenheim dice che lui naturalmente tornerà a Palazzo Ducale, nel suo studio: la città vecchia era tutt’uno con l’università, così come anche la biblioteca era circondata da possenti mura e coronata da una rocca e tuttavia (o piuttosto perciò) una cittadella dello studio, dell’apertura al mondo, della trasmissione del sapere e anche della bellezza. Se questo luogo dovesse andare perduto, non saranno colpite solo le Marche, non solo l’Italia, ma, sia consentito dirlo, tutto ciò che significa cultura europea. Non può, non deve succedere.

Lunedì 11 marzo 2019. Conferenza dell’Avv. Alan Sandonà.

Care Amiche e Amici bibliofili

la prossima conferenza si terrà

Lunedì 11 marzo 2019, alle ore 16,00, presso 

l’Archivio di Stato di Brescia (Via G. Galilei, n° 44)

Il Dr. Sandonà avv. Alan,

ci intratterrà sul tema:

“Gli Statuti del Comune di Brescia tra medioevo ed età moderna”,

con particolare riguardo alla natura dello Ius Proprium cittadino e la sua
collocazione nel sistema delle fonti dello Ius Commune.

Esposizione in originale dei documenti oggetto della trattazione.

NB. Alle ore 17,15 circa seguirà breve rinfresco.

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Mercoledì 27 febbraio 2019. Conferenza del prof. Danilo Falsoni.

Care Amiche e Amici bibliofili

nella prossima conferenza il prof Danilo Falsoni

ci porterà ad una rilettura

dell’Infinito di Giacomo Leopardi

invito fac-simile bibliofili

PER UNA RILETTURA DE L’INFINITO LEOPARDIANO NEL BICENTENARIO DELLA STESURA.

Nel 2019 il secondo manoscritto originale del celebre Infinito leopardiano tornerà a Recanati, in una mostra che si terrà a Villa Colloredo: un’occasione succulenta non solo per i bibliofili e gli amanti dei manoscritti, ma anche per una rilettura in termini attuali della poesia forse più nota del Nostro.

E’ bene chiarire che del celebre componimento esistono due manoscritti: il primo, conservato presso la Biblioteca Nazionale di Napoli1 (fig.1), e il secondo presso l’Archivio Comunale di Visso (MC) (fig. 2); è quest’ultimo quello che sarà esposto a Recanati nel corso dell’anno. Un terzo manoscritto comparve da una raccolta privata nel 2014 e suscitò scalpore mediatico e una serie di discussioni e indagini che culminarono però presto nell’accertamento della falsità di tale copia.2

L’analisi delle varianti dell’Infinito permette ovviamente di entrare nel concreto modus operandi dell’autore, rilevandone le oscillazioni compositive: un rapido confronto fra i manoscritti e l’edizione definitiva dei Canti, secondo l’ultima volontà dell’autore, quella napoletana del 1835, presso l’editore Starita (fig.3)3, non evidenzia grandi cambiamenti e ripensamenti nella stesura del testo, se non in direzione di una maggiore efficacia e coerenza concettuale, con lo spostamento e sostituzione, ad esempio, dei termini indicanti il concetto di infinito.

Nel manoscritto napoletano si rileva innanzitutto la sostituzione di un’espressione ridondante e scialba come celeste confine del v.3 con il più espressivo ultimo orizzonte, mentre al v.4 infinito/spazio diviene interminato/spazio, con un sinonimo che elimina il riferimento esplicitamente diretto all’infinito, pur avendone il medesimo significato (un prefisso privativo più un concetto di limite, di termine), incrementando al contempo un lessico dell’infinità connotatore della riflessione leopardiana.

Se al v. 9 la leggera variazione della preposizione fra in tra ha una funzione puramente fonica, in quanto crea un sequenza parallela di consonanti alveolari sorde (Odo stormir tra queste piante), come al v.12, ben più rilevante è la sostituzione al v.13 dell’arcaico immensitade con infinità e la inversione dell’ordine sintattico della frase, per cui Il mio pensier s’annega diviene il definitivo s’annega il pensier mio, assai più icastico nella posticipazione del soggetto: sostituzione che ritorna anche nel manoscritto di Visso, indizio di ripensamenti dell’autore.

Nell’edizione definitiva del 1835, l’interminato/ spazio del v.4 diverrà il ben più esteso e immaginoso plurale interminati/spazi, in cui le quattro vocali anteriori i, con la luminosità del loro suono, paiono evocare allo sguardo della fantasia una dilatazione di quegli spazi intersiderali, mentre l’infinità del v. 13 tornerà ad essere l’immensità, con l’utilizzo, da parte dell’autore, di un altro termine, come al v.4, costituito da un prefisso privativo che nega il nucleo semantico della parola (in-mensità, dal lat. mensura = misura) che viene così a significare smisurato, senza limite.

Il nostro testo è stato visto per lunga tradizione come una tipica espressione di trasporto romantico sentimentale, di una pulsione puramente spirituale verso un senso vago dell’infinito, un bisogno ineliminabile di un’anima tormentata e quasi oziosa, in cui si esprimerebbe quella caratteristica Sensucht dei romantici europei.

Ebbene, credo che sia innanzitutto necessario sgombrare il campo da questo equivoco, anche per non perpetuare l’immagine di un Leopardi dall’animo perennemente melanconico e proteso oltre la realtà concreta, tutto intento a elucubrazioni metafisiche lontane dalla vita d’ogni giorno: di profondamente e autenticamente romantico, semmai, vi è la figura del poeta solitario in atto di ascoltare se stesso e i moti del proprio animo.

Per comprendere la matrice ideologica più autentica e profonda del componimento scritto nel corso del 1819, bisogna tenere ben presente quelle idee che saranno compiutamente definite e ordinate dal poeta nel luglio del 1820, esposte nelle famose pagine che organicamente costituiscono il nocciolo di una vera e propria teoria filosofica, detta la “teoria del piacere”. Si tratta della rielaborazione personale che Leopardi fece del Sensismo, la cui conoscenza gli derivava dalla lettura di Pietro Verri, autore di un saggio Dell’indole del piacere e del dolore, nel quale il noto illuminista milanese rielaborava le idee del filosofo francese Condillac, autore di un Traité des sensations, pubblicato nel 1754, e che avevano trovato diffusione in Italia attraverso il Verri, il Beccaria, il Pagano e altri intellettuali italiani.4

Ebbene, nella sua teoria, Leopardi afferma esistere nell’uomo un’insopprimibile pulsione verso la felicità, vista sensisticamente, appunto, come coincidente con sensazioni piacevoli, cioè identificata tout court con il piacere. Ma – e questa è l’innovazione teoretica leopardiana – codesto desiderio o pulsione di piacere sarebbe nell’uomo senza limite, cioè “infinito”, il che ovviamente gli impedirebbe la possibilità di raggiungerlo, essendo ogni piacere limitato per durata e intensità (Leopardi usa il termine estensione). Pertanto, tale condizione di frustrazione perenne sarebbe all’origine della inevitabile infelicità dell’uomo, destinato a oscillare fra un desiderio inappagabile, la limitata felicità derivante dalla cessazione di dolori nel corso della propria esistenza o da temporanei piaceri-surrogato di un autentico piacere infinito, come il ricordo, l’attesa, la vita intensa etc., e il sentimento della noia, portato diretto di tale frustrazione, fino a divenire consapevolezza della nullità delle cose, da intendere non in senso ontologico, ma piuttosto gnoseologico, in relazione ai fini eudemonistici dell’uomo5.

E’ chiaro, quindi, che insita nella natura umana è un’inesauribile pulsione verso un’infinita autorealizzazione, possibile solo attraverso l’attingimento di una felicità, purtroppo sempre limitata e insoddisfacente: l’ansia d’infinito, dunque, avrebbe in Leopardi ben poco di spirituale e sentimentale, ma sarebbe fondata sulla ricerca di concrete e assai fisiche sensazioni, le uniche in grado di sostanziare il concetto di felicità, altrimenti astratto e inconsistente: per felicità, il nostro poeta filosofo intendeva qualcosa di ben connotato a livello sensoriale, altro che melenso vagheggiamento di soddisfazioni astratte o sentimentali. Questo ci dà l’idea di quanto Leopardi fosse uomo sensuale, ben diverso dall’immagine tramandata di un povero infelice incapace di gustare la vita, intento solo a crogiolarsi nell’assaporare sentimenti di mestizia, ma anzi uomo disperato per non poter raggiungere una felicità agognata con tutte le sue forze intellettuali e fisiche.

Ecco, allora, la genesi, il principio da cui scaturisce la riflessione su quell’infinito cui l’uomo tende con tutte le sue forze: che può essere anche dilatabile a una lettura metafisico-religiosa, certo, se in quell’infinito così ossessivamente perseguito leggiamo un assoluto come quello di cui parla S. Agostino (inquietum est cor nostrum, donec in Te requiescat): ma sarebbe forzatura filologica e filosofica, legittimissima, tuttavia, per la lettura più ampia d’orizzonte che chiunque può fare dell’opera letteraria.

L’Infinito è stato oggetto di numerose e illustri analisi critiche, da quella di K. Vossler a M. Fubini, a A. Monteverdi a L. Blasucci, 6 per citare solo le più note, che ne hanno sviscerato l’icasticità poetica, quella forza espressiva che gli ha permesso di imprimersi nelle menti di generazioni e generazioni di scolari e divenire emblematico della poesia stessa nell’immaginario collettivo non solo italiano, testo esemplare per la recitazione di ogni attore-dicitore.

La lettura che vorrei farne è tesa a dimostrare la modernità dell’ispirazione leopardiana e il suo carattere classico, inestinguibile, in grado di parlare e commuovere lettori di ogni epoca.

Innanzitutto, che cosa ci colpisce immediatamente alla lettura del testo? che cosa si imprime subito nella mente del lettore-uditore, fin dai primi versi che sono proprio quelli che si scolpiscono nel nostro immaginario?:

Sempre càro mi fù quest’èrmo còlle,

E quésta sièpe, che da tànta pàrte

Dell’ùltimo orizzònte il guàrdo esclùde.

E’ il ritmo, la scansione lentissima e regolare con cui fluiscono le parole dei primi tre versi e che nella loro accentuazione soffermano l’attenzione su quei termini divenuti emblemi di una attitudine affettiva verso quegli elementi naturali: sempre caro, quest’ermo colle, questa siepe, il guardo esclude…, dove ineliminabili alla fantasia poetica sono gli arcaismi come ermo e guàrdo, che non solo non stonano affatto, ma si caricano di una connotazione sentimentale che li rende intimi ad ogni lettore.

Ma sedendo e mirando, interminati |

Spazi di là da quella, e sovrumani |

Silenzi, e profondissima quiete |

Io nel pensier mi fingo; ove per poco|

Il cor non si spaura.

E proseguendo, è ancora il ritmo a colpire, un ritmo che si dilata oltre la misura dei versi con delle spezzature ritmico-sintattiche che quasi materializzano pause di stupore dinanzi all’espandersi dell’immaginazione verso spazi infiniti; e questi enjambements isolano anche graficamente, tra fine e inizio versi, aggettivi e sostantivi di forte portata concettuale, con grande efficacia espressiva: interminati/spazi; sovrumani/silenzi.

C’è una dimensione che va al di là dell’umano, che si avvale di concetti e aggettivi superlativi (in-terminati, sovrumani, profondissima quiete), tanto che il cuore, per poco, non si spaura: mi soffermerei su questo spaurirsi, verbo decisamente arcaico, testimoniato dal ‘300, eppure efficacissimo a rendere l’idea di una paura e sgomento dinanzi al vuoto infinito, a un horror vacui che prenderebbe chiunque, trovandosi abbandonato negli spazi intersiderali.

E quasi il sibilo di questa corsa siderea pare di sentire in quelle sibilanti allitterate: spazi sovrumani silenzi, profondissima, pensier, spaura.

Al v. 8 una pausa fortissima, centrale, che fa coincidere aspetto sintattico-semantico, con la conclusione di un periodo, e quello metrico, con la pausa di un endecasillabo a maiore, dopo l’accento sulla 6^ sillaba, segna anche una forte sospensione concettuale. Il poeta è ritornato, con l’immaginazione, accanto alla sua siepe, distolto dal frusciare delle foglie mosse dal vento: e qui, ai vv.10-11, si verifica un nuovo passaggio della fantasia – il termine è implicito in quel verbo del v.7, mi fingo, nella sua radice etimologica dal latino fingĕre = costruire, con la mente, appunto – che lo induce a paragonare l’infinito spaziale alla voce del vento e quindi a pensare a una diversa infinità, quella temporale:

E come il vento

Odo stormir tra queste piante, io quello

Infinito silenzio a questa voce

Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,

Ma come avviene questo passaggio concettuale? Attraverso il rumore del vento che fa stormire le foglie della siepe e che lo richiama alla sua condizione fisica attuale, cioè allo spazio in cui si trova e, conseguentemente, anche alla dimensione temporale, cioè il presente della sua meditazione accanto a quella siepe stessa. Così gli sovviene il pensiero dell’eternità, cioè dell’infinito del tempo: si noti che il termine sovvenire significherebbe propriamente ricordare, venire alla mente ma, come fu finemente annotato dal Vossler, “nella intonazione della poesia trasognata, anche il presente emerge come un ricordo”7.

E questo slancio immaginativo si approfondisce e proietta lungamente nel tempo, dà l’impressione di dilatarsi infinitamente grazie all’artificio del polisindeto che prolunga nei versi l’immagine delle categorie del tempo, rallentandone anche il ritmo e concludendosi in un’altra forte pausa interna, anch’essa corrispondente alla pausa metrica di un endecasillabo a maiore:

e mi sovvien l’eterno,

E le morte stagioni, e la presente

E viva, e il suon di lei. | Così tra questa

Immensità s’annega il pensier mio:

E il naufragar m’è dolce in questo mare.

Come è noto, questi spostamenti dell’immaginazione del poeta sono quasi materializzati dalla variazione dei pronomi e aggettivi dimostrativi, in un vero e proprio andirivieni connotativo dal vicino al lontano e viceversa dell’immaginazione poetica: da questa siepe del v.2 a quella del v.5, da queste piante del v.9 a quello/ infinito silenzio dello stesso verso, a questa voce del v. 10 fino a questa/immensità del v.13 e questo mare dell’ultimo verso. E non si tratta solo di una connotazione immaginativa, ma di una vera e propria esplorazione della psiche, di una traslazione esistenziale, di un immergersi dal contingente limitato e deludente, storicamente e spazialmente, all’assoluto inebriante e consolatorio del senza limite.

La poesia si conclude con il celebre sprofondamento nel mare dell’infinito, senza la forma aferetica dell’articolo nella redazione definitiva, dettaglio puramente grafico, dato che in ogni caso metricamente si verifica la sinalefe: E il naufragar m’è dolce in questo mare.

Si tratta di un verso che colpisce per la sua lentezza ritmica, che suggella questa avventura dell’animo leopardiano, questo viaggio dell’immaginazione in una sorta di cupio dissolvi consolatoria, in quanto la dimensione dell’infinità diviene relativizzante di ogni contingenza umana, necessariamente limitata, rimpicciolita se non del tutto dissolta nel confronto con quella. Quindi, anche ogni dolore e sofferenza individuale si smarrisce in questo infinito, assimilato metaforicamente all’acqua, a un mare dal quale essere ingoiati: non voglio fare psicologismi, ma indubbiamente questo accostamento con l’acqua colpisce per il carattere mitico-ancestrale che essa ricopre nelle strutture mentali umane, presso tutte le civiltà: la autodissoluzione in un infinito/acqua, in una sorta di elemento primordiale assume quasi il senso di una regressione annichilente.

Più ampia e profonda diviene la prospettiva di tale conclusione se la si riconduce a una considerazione filosofica a cui Leopardi giungerà qualche anno dopo, quando arriverà a identificare l’infinito con il nulla8: allora il naufragio finale dell’io assumerà una valenza decisamente nichilista, un riferimento a un Nulla quale substrato dell’Essere, dimensione inattingibile ma consolatoria, quasi una sorta di enigmatico Nirvana, in una intuizione anticipatrice di riflessioni che troveranno formulazione più esauriente nell’Esistenzialismo del secolo scorso.

Leopardi fu quasi profeta incompreso nel suo tempo di tanti aspetti della crisi assiologica dell’uomo contemporaneo, dell’incrinarsi della fiducia nel progresso economico e nelle fedi politiche e religiose9 – ma la società occidentale per arrivare a questo dovrà aspettare l’affermarsi del Positivismo e il suo declino – ed oggi ci appare solitario anticipatore del nichilismo contemporaneo, come è stato notato negli anni più recenti da alcuni studiosi10, ma come già apparve lucidamente a Nietzsche sullo scorcio del secolo scorso.

Brescia, gennaio 2019

Danilo Falsoni

1 Biblioteca Nazionale di Napoli, Segnatura C.L.XIII.22. Sito ufficiale www.digitale.bnnonline.it/index.php?it/121/linfinito-1819

2 Manoscritto de L’Infinito, spunta un’altra copia/629964/ in

https://www.cronachemaceratesi.it/2015/03/07/manoscritto-delinfinito…/629964 ; Falso l’Infinito di Leopardi: la perizia scioglie i dubbi, in https://www.cronachemaceratesi.it/2015/05/20/falso-linfinito-di-leopardi-la-perizia-scioglie-i-dubbi/659203. Anche la stampa di tiratura nazionale si occupò della vicenda.

Per altri manoscritti leopardiani rivelatisi in passato apocrifi, cfr. S. TIMPANARO, Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani, in “Giornale storico della letteratura italiana”, CXLIII, 1966, pp. 88-119 e A. MONTEVERDI, La falsa e la vera storia dell’Infinito, in ID., Frammenti critici leopardiani, Ed. Scientifiche Italiane, Napoli 1967.

3 Canti di GIACOMO LEOPARDI, Edizione corretta, accresciuta e sola approvata dall’autore, Napoli, presso Saverio Starita. 1835.

4 Rimando al mio I fondamenti sensisti del pensiero leopardiano, in “Nuova Secondaria”, XXXIV, n.5, Gennaio 2017, pp. 56-59.

5 “Le cose ch’esistono non sono certamente per se nè piccole nè vili: nè anche una gran parte di quelle fatte dall’uomo. Ma esse e la grandezza e le qualità loro sono di un altro genere da quello che l’uomo desidererebbe, che sarebbe, o ch’ei pensa esser necessario alla sua felicità, ch’egli s’immaginava nella sua fanciullezza e prima gioventù, e ch’ei s’immagina ancora tutte le volte ch’ei s’abbandona alla fantasia, e che mira le cose da lungi. Ed essendo di un altro genere, benchè grandi, e forse talora più grandi di quello che il fanciullo o l’uomo s’immaginava, l’uomo nè il fanciullo non è giammai contento ogni volta che giunge loro dappresso, che le vede, le tocca, o in qualunque modo ne fa sperienza. E così le cose esistenti, e niuna opera della natura nè dell’uomo, non sono atte alla felicità dell’uomo. Non ch’elle sieno cose da nulla, ma non sono di quella sorta che l’uomo indeterminatamente vorrebbe, e ch’egli confusamente giudica, prima di sperimentarle. Così elleno son nulla alla felicità dell’uomo, non essendo un nulla per se medesime. E chi potrebbe chiamare un nulla la miracolosa e stupenda opera della natura, e l’immensa egualmente che artificiosissima macchina e mole dei mondi, benchè a noi per verità ed in sostanza nulla serva? poichè non ci porta in niun modo mai alla felicità.” Zibaldone, pp.2936-2938. (10 luglio 1823).

6 K. VOSSLER, Leopardi, Ricciardi, Napoli 1926; M. FUBINI, Metrica e poesia; lezioni sulle forme metriche italiane, Feltrinelli, Milano 1962, pp.65-70; A. MONTEVERDI, La falsa e la vera storia dell’Infinito, in ID., Frammenti critici leopardiani, Ed. Scientifiche Italiane, Napoli 1967.

L. BLASUCCI, Leopardi e i segnali dell’Infinito, Il Mulino, Bologna 1985.

7 K. VOSSLER, op.cit. p. 176.

8 “Pare che solamente quello che non esiste, la negazione dell’essere, il niente, possa essere senza limiti, e che l’infinito venga in sostanza a esser lo stesso che il nulla. Pare soprattutto che l’individualità dell’esistenza importi naturalmente una qualsivoglia circoscrizione, di modo che l’infinito non ammetta individualità e questi due termini sieno contraddittorii; quindi non si possa supporre un ente individuo che non abbia limiti.” Zibaldone, p. 4178 (2 Maggio 1826.).

9 Si pensi alla carica demistificatoria di testi come la Palinodìa al Marchese Capponi, I nuovi credenti e La Ginestra, e a operette come il Dialogo di Tristano e un amico.

10 A. CARACCIOLO, Leopardi e il Nichilismo, Bompiani, Milano 1994; E. SEVERINO, II nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, Rizzoli, Milano 1990, e Cosa arcana e stupenda. L’Occidente e Leopardi, Rizzoli, Milano 1997; L.CAPITANO, Leopardi. L’alba del nichilismo, Palermo 2010